C’è stato un tempo in cui vivevo un’altra vita, ed ero un’altra persona. Di un’altra città. Vivevo in un appartamento al primo piano di un palazzo grande dove non si potevano aprire spesso le finestre per via del biossido dei pulman e delle auto e quindi per lo stesso motivo tipo non avevo il filo dei panni. C’era un sacco di gente fuori e dentro la mia casa, involucri per lo più e apparenze. Amici occasionali o fissi di cui poi è restato appena quello che si conta sulle dita di una mano e ne avanzano pure tre, forse quattro, di dita. Nonostante stia ricordando un periodo piuttosto lungo, ancora oggi posso dire di non averci capito un cazzo. C’era questo tizio dai contorni indefiniti che girava per casa e un gatto brutto come la morte; io avevo sempre da fare comunque. Al lavoro, nella mia testa. Avevo sempre qualche progetto da portare avanti e che nel 90% dei casi lasciavo a metà. Dopo c’erano le giornate in cui nevicava, che mi inventavo una scusa per non andare a lavorare e me ne uscivo a fare foto. Ascoli è una città che non puoi smettere di fotografare, ha tante di quelle sfaccettature che la gente neppure nota, persa negli sguardi alle cose grandi; ci sono personaggi che devi conoscere, luoghi non turistici che devi percorrere, angoli di case che non terminano svoltando l’angolo. E’ una continua meraviglia.
Nonostante si trovi ai piedi di una montagna nevica raramente e quando capita non è mai abbastanza, la neve in città è quasi sempre effimera. Ma quando succedeva, indossavo quel paio di jeans ricuciti cento volte – li conservo ancora oggi in un cassetto – le Dr Marteens, il cappottino nero, un cappello e una sciarpa a casaccio e uscivo di corsa. La neve la toccavo appena uscita dal cancello, subito a sinistra, sul muretto dove si accatastava facilmente; era una sorta di rito, l’iniziazione all’inverno che per la verità, il più delle volte, era già quasi passato, dopo allungavo il passo verso il centro. In giro c’erano sempre un paio di fotografi, forse tre ma di quelli bravi, poi c’ero io, l’autodidatta che credeva di poter congelare l’amarezza fotografando cose che nessuno avrebbe fotografato mai. I fotografi veri a volte si attrezzavano pure di un aiutante con l’ombrello per tenere gli strumenti all’asciutto, invece la mia Canon era sempre perennemente bagnata ma mi piacevano i riflessi caleidoscopici delle gocce d’acqua sull’obiettivo, filtri naturali che a random potevano regalare un’opera d’arte come fanno le pellicole montate sulle Diana o le Helga.
Qualche volta, quando svoltavo gli angoli mi colpiva la meraviglia perché riconoscevo, in un posto tanto abituale, alcune sfaccettature di altre città lontane, come Londra ad esempio, la Londra vissuta. Soltanto gli odori tradivano, di una cultura diversa. E i cartelli stradali in italiano.
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