La giornata inizia con mia madre che mi fa notare che c’è acqua sul pavimento del bagno e che sicuro il gatto ci ha pisciato. Guardo per terra e provo a farle capire che se il gatto piscia così tanto sicuro ha un problema. Lei è irremovibile: è stato il gatto, dice. Salgo al piano di sopra, la sento urlare: Eccola, è lei, che t’avevo detto? È andata a pisciare nella bagnarola dei panni!
Nemmeno rispondo, è palese che qualcosa perde e di certo non è la vescica del gatto. Sono un po’ in ansia perché da una settimana hanno programmato una call nel pomeriggio, dobbiamo fare un gioco tutti insieme ma divisi a squadre e solo ieri ho scoperto di essere nel gruppo del megacapo. Il problema maggiore è che, naturalmente, si svolgerà tutto in inglese stretto ed io con l’inglese stretto ho più problemi della vescica del gatto, poi in qualche modo faccio ma vado comunque in ansia a pensarci.
A mezzogiorno mio fratello decide di controllare i rubinetti del bidet ma gli resta in mano una valvola: il getto bollente lo investe senza possibilità di stop, nostra madre si appresta a chiudere i manicotti e aprire i rubinetti per far defluire l’acqua, pare un pompiere navigato alle prese con gli idranti. Mio fratello impreca contro lo scaffale, il cestino, l’ex contenitore dei panni e la nostra genitrice: PORCOGGIUDA, LEVA QUEST’AFFARE! È DA QUARANT’ANNI CHE STA PIAZZATO QUA DENTRO E NON SERVE A UN CAZZO. Madre non risponde ma le colgo in viso un’espressione colpevole e mortificata. Intanto i rubinetti sono tutti aperti, il getto non accenna a diminuire, mio fratello tenta di raccogliere l’acqua con una bacinella, la raccoglie e la butta nel bidet ma nella foga è più quella che esce che quella che entra, stiamo imbarcando più acqua del Titanic, affonderemo.
Dopo mi mandano a chiudere direttamente il contatore, penso alla call del pomeriggio, al megacapo e all’inglese e quasi ignoro la cavalletta che mi salta addosso dal cancello: sono quasi morta. Da fuori grido che sono viva e che l’acqua è chiusa, il mio tono di voce avvisa pure tutto il vicinato. Mio fratello è ancora chino sull’acqua, mia madre mi chiede gli strofinacci, glieli porto: NO QUESTI! PRENDI QUELLI VECCHI, QUESTI NUOVI NON SERVONO A UN CAZZO! Gridano tutti, mia madre contro di me, mio fratello contro mia madre, mia madre contro gli strofinacci, mio fratello contro il contenitore, mia madre contro l’acqua, mio fratello contro i rubinetti: VAI A CACCIARE LA PASTA! Grida mia madre nella confusione. Io non parlo, io penso alla call e alle pennette al pomodoro che per una volta che ho deciso di saltare la dieta, mi tocca pure mangiarle scotte. Torno in bagno e avviso che è pronto: dai su, dico, pranziamo, il peggio è passato, l’acqua si è fermata, siamo ancora in alto mare ma ce la possiamo fare. Mio fratello chiama l’idraulico: ci verrà a salvare. A che ora viene? Chiedo. Appena può, dice. Io alle 5 ho una call, dico rigida. Nessuno mi caca. Mamma tira l’acqua dal pavimento, io e mio fratello mangiamo, non sento manco il sapore della pasta, non è Covid. L’idraulico suona alle 15,30, mi affaccio con in testa il cappello da albero di Natale a cui ho anche applicato le lucine a forma di cactus, perché la call la facciamo in pieno spirito natalizio e sono già nel climax avanti di un’ora e mezza. L’idraulico mi guarda e fa un passo indietro, mi chiede se è la casa giusta. Dico si, che il cappello mi serve per una cosa.
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L’idraulico ci porta a riva in dieci minuti netti e neanche dieci euri, io tiro un sospiro di sollievo, mi sento pronta.
Mi collego alle 17 meno un minuto e inizio a ridere. Uno dei miei colleghi ha un cappello da babbo natale, una specie di cravatta a forma di pupazzo di neve e degli occhiali psichedelici che Malgioglio scanzati. Una collega indossa un cerchietto con delle antenne alle cui estremità sorgono due palle grosse come Pomeli, un altro si appresta ad indossare una giacca fucsia, il megacapo ha una specie di colbacco con un paio di gambe da elfo posizionate sottosopra, mi fanno tutti crepare dal ridere, graziaddio mi si scioglie la tensione. C’è il tizio che spiega il gioco che non si capisce se è vero o finto e parla a manetta, gli chiedono di parlare più lentamente, lui si scusa, dice due parole a velocità tartaruga e poi riprende a lepre. Io non capisco un cazzo. Mi rendo conto che devo cambiare stanza virtuale solo perché mi appare un pop up con l’avviso. Ecco, iniziamo, io il megacapo e altri due colleghi ma uno se ne va in fretta e furia. Il gioco dura un’ora e mezza, si tratta di venti domande che manco al colloquio preliminare con la nasa te le fanno così difficili. Ne azzecco una per grazia ricevuta, per il resto ascolto il megacapo e l’altro collega discutere tra loro e mi fingo interessata a risolvere quiz di cui non capisco una coda. Ragioniamo in tre ma io per finta, loro sembrano non farci caso. Contesto una risposta e quando mi chiedono why? Mi imbarco in un discorso lungo tre minuti e così inciampato che mi esce pure una parola in turco ma non è una bestemmia. Non so se mi hanno capito, sembrerebbe di no. Alla fine delle venti domande torniamo nella stanza principale. Sto così fusa che manco saluto ma avverto sensazioni simili da più parti. L’uomo finto si riaffaccia e torna a parlare a manetta, a stento comprendo che sta dichiarando la squadra vincitrice. Evviva! Evviva! Thanks to all, Merry Christmas! Bye! Bye!
Finalmente posso chiudere la connessione.
Dopo mi scrive una collega via chat:
– Non ho capito un cazzo, dice. Chi ha vinto?
– Boh?
*Le due frasi le ho trovate nel post demo che ho sovrascritto per questo articolo, cadevano a fagiuolo e le ho lasciate.
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